Vai al contenuto

Sebastião Salgado | Al Maxxi di Roma l’Amazzonia è un tempio vivente


Perché approfittare degli ultimi giorni della mostra in allestimento fino al prossimo 13 febbraio


La natura è un tempio vivente, una foresta di simboli che l’uomo dotato della sensibilità più profonda – l’artista – attraversa, in ascolto, nel tentativo di cogliere le corrispondenze sensoriali di un linguaggio atto a risvegliare i moti dell’anima, senza far uso di parole. Riaccende la bellezza dell’essere puro, come un bambino, attraverso un codice che interroga il corpo e lo inebria di profumi, suoni, colori, in un abbraccio dei sensi avvolgente quanto l’oscurità della notte, immensurabile quanto il chiarore del giorno.

Questa lingua, indecifrabile, la parlano gli alberi soli – le colonne portanti dell’universo lasciato in eredità all’uomo – affinché questi possa tramite il dono della vegetazione rigogliosa che lo circonda convogliare dentro di sé, ciò che Baudelaire chiama, “il respiro delle cose infinite”. Il soffio vitale a cui, faremmo spesso meglio a ricordare, è legata la nostra stessa sopravvivenza.

È partendo dalle suggestioni evocate da una delle più celebri poesie di ogni tempo, le Corrispondenze de «I fiori del male», che è possibile ritrovare la bussola con cui virare il nostro sguardo di spettatori urbani ai territori imperscrutabili fotografati nella mostra Amazônia, in allestimento al MAXXI di Roma (purtroppo, unica tappa italiana) fino al prossimo 13 febbraio. Che, dopo l’Italia, proseguirà il tour a Londra, San Paolo, Avignone e Rio de Janeiro, seguendo i passi di chi – alla stregua del poeta decadente – ha percorso le più impenetrabili radure dell’igapò, la foresta pluviale, pur di riuscire a consegnarci la visione di un patrimonio a rischio estinzione.


Sebastião SALGADO

Sebastião Salgado, Anavilhanas, isole boscose del Río Negro. Stato di Amazonas, Brasile, 2009 | © Sebastião Salgado/Contrasto

 

Un tesoro naturale che deve la sua magnificenza non solo alla ricchezza dell’ecosistema boschivo, bensì al variegato microcosmo che lo abita e lo anima, alle usanze millenarie e alle lingue uniche che le tribù indigene custodiscono. Se si vuole conoscere la vita, bisogna incontrare la diversità delle società umane. È la lezione dei più illustri studiosi dell’antropologia strutturale: Malinowski, Boas, De Martino, Lévi-Strauss. Perché, come già nel 2014 il film di Wim Wenders dedicato al Maestro ci aveva raccontato, le etnie native sono “Il sale della terra”. E questo poeta illuminato, che disegna su carta l’anima del mondo in bianco e nero, non può che essere Sebastião Salgado.

Ciò che colpisce immediatamente il visitatore, all’ingresso della sala, sta nel repentino passaggio dalla luce bianca degli spazi museali all’oscurità pervasiva delle pareti entro cui si realizza l’itinerario visivo lungo le oltre 200 immagini raccolte. L’allestimento a cura di Lélia Wanick Salgado, inaugurato lo scorso 1° ottobre, mira a contraddire l’idea di una bellezza rappresentativa fine a se stessa, conferendo alla fotografia – anche in questa nuova ricerca dedicata alla geografia della foresta – il valore testimoniale di un’arte che guarda alla natura incontaminata come elemento da preservare, contro i mali procurati dalle inarrestabili conseguenze del cambiamento climatico.

A causa degli incendi, la foresta amazzonica – che occupa circa un terzo del continente sudamericano – produce più CO2 di quanta riesca ad assorbirne. E Salgado invita a sentirci co-responsabili di questa notizia sconcertante, di una depredazione in atto che appare irreversibile e ci riguarda in prima persona, perché il bioma amazzonico influenza i modelli climatici dell’intero pianeta e sempre in Amazzonia è concentrato il più alto numero di specie botaniche al mondo.


sebastiao salgado

Sebastião Salgado, Sciamano Yanomami dialoga con gli spiriti prima della salita al monte Pico da Neblina. Stato di Amazonas, Brasile, 2014 | © Sebastião Salgado/Contrasto

 

Da fruitori dell’informazione conosciamo la centralità che il tema della transizione ecologica riveste tra le sfide che l’agenda delle Nazioni Unite e dell’UE si propone di attuare nel prossimo futuro; tuttavia, sarebbe difficile ritrovare nelle proposte politiche o nei dossier circa il consumo di energia o la biodiversità lo stesso profondo impatto che un solo scatto della poetica espressiva di Salgado trasmette del fenomeno: osservando la deforestazione praticata dalle aziende agricole assimiliamo il significato reale dell’emergenza ambientale e la necessità di un precoce rimboschimento; dinanzi alla siccità provocata dal surriscaldamento globale, percepiamo l’imminente l’urgenza di una decarbonizzazione massiva che venga pianificata di pari passo a una virtuosa strategia di ripresa sostenibile su larga scala.

Si deve essere, quindi, sinceramente grati al lavoro di questo fotografo che fa dell’immagine lo strumento per portare alla ribalta spinose questioni su cui s’infiamma l’attuale dibattito civile, uno stile che traversava in filigrana anche i suoi precedenti progetti come Migrations e Genesi, ravvivando quella spinta a guardare oltre, a entrare negli occhi che hanno preceduto l’opera, al punto che si ha l’impressione di camminare attraverso le fotografie illuminate (di formato differente e poste a diverse altezze) in una giungla labirintica, districandosi tra esse come tra liane appese ai rami.

Anche il tappeto sonoro, composto per l’occasione da Jean-Michel Jarre, tende a restituire nel visitatore-esploratore l’idea di un’esperienza immersiva nel polmone del pianeta, trasferendo una certa inquietudine al solo pensiero che il Paradiso dell’Amazzonia possa modificare la propria fisionomia e diventare, come già lo chiamano, un “Inferno verde”. Che arcipelaghi di oltre 300 isole, come le Anavilhanas, siano destinati a scomparire, subissati nella stagione delle tempeste tropicali dall’innalzamento delle acque scure del Rio Negro. Il fotogiornalismo diviene così mezzo per monitorare il perimetro dei luoghi e l’evoluzione del paesaggio e, infine, misurare le fragilità dei Tristi tropici.


sebastiao salgado

Sebastião Salgado, Rio Jutaí. Stato of Amazonas, Brasile, 2017 | © Sebastião Salgado/Contrasto

 

Prodotta dal MAXXI in collaborazione con Contrasto, l’esposizione si attraversa come i capitoli di un libro, nella prima parte organizzati per ambientazione paesaggistica: dapprima vediamo la foresta pluviale inquadrata dall’alto, poi le curve dei suoi fiumi ‘volanti’, ovvero gli affluenti del Rio delle Amazzoni da cui proviene il 20% dell’acqua dolce presente sulla terra; e ancora, i venti intrisi del vapore che muta nella foschia dei cumulonembi, fino ad avvolgere la possenza granitica delle Ande. Una dettagliata cartina, desunta dalle fotografie satellitari, ci mostra fin dove si è potuta spingere la spedizione, condotta dal gruppo di ricerca a partire dal 2017 e nei successivi sei anni di permanenza nel bacino amazzonico. Il primo ostacolo è stato proprio quello di riuscire a spostarsi in un territorio tanto ostile; la seconda riuscire a trasmettere fiducia nelle comunità degli autoctoni, refrattari ai contatti con l’esterno, per catturare l’essenza di un’indagine etnologica e parimenti antropologica. Sono oltre cento i villaggi che Salgado ha dichiarato di non essere riuscito a raggiungere.

La forza intima della mostra risiede, infatti, soprattutto nella seconda parte del percorso quando ci si addentra nei volti e si resta emotivamente affascinati dalla nitidezza estetica dei ritratti (di alcuni è possibile scorgere anche il set precedente il posato) e dalla quotidianità di generazioni rimaste per secoli all’infuori fuori della civiltà. Alcune non sanno cosa sia Internet, altre non hanno mai sentito parlare della pandemia, altre sono rimaste invece contagiate dalla crisi epidemiologica per via delle ripetute incursioni illegali di allevatori, minatori e taglialegna locali nei loro rifugi. Quelli intervistati nei filmati in mostra riferiscono, però, di non rimpiangere lo stile di vita primitivo che hanno ereditato per tradizione familiare e successivamente scelto al pari di una vocazione: gli indios si considerano gli ultimi destinatari del segreto della natura.


sebastiao salgado

Sebastião Salgado, Indiana Yawanawà. Stato di Acre, Brasile, 2016 | © Sebastião Salgado/Contrasto


Se per entrare in contatto con le tribù, Salgado si è a lungo attardato nella loro condizione umana, allora anche al visitatore è data l’occasione incontrare le etnie native simulando l’ingresso presso le loro abitazioni, le ocas. Ed ecco che nella sala del MAXXI sono state allestite delle piccole capanne (stavolta di colore rosso, in contrasto all’ambiente chiaroscurale), volte a racchiudere la magia di un atlante privato, bucolico, primordiale. I rituali sciamanici degli Xingu e degli Yanomami, le pitture corporali degli Yawanawá e delle donne Asháninka, il rapporto con gli animali nelle famiglie Suruwahá, il significato delle battute di caccia per i capo tribù Xingu, della fauna per i Korubo, l’artigianato delle armi nelle comunità Marubo, e infine la convivialità della tribù Zo’è, che letteralmente vuol dire “sono me”, ovvero “siamo persone”: di fronte a questo patrimonio, se ne esce come di ritorno da un viaggio al termine della notte, verso la radice primigenia dell’essere umano.

Ora sappiamo che questa umanità è in pericolo e per salvarla (e salvarci) dalla minaccia di un genocidio in agguato abbiamo il dovere etico di sostenere tutte le iniziative tese a preservare e onorare il tempio amazzonico. Supportando il fotogiornalismo che lo ritrae e, in particolare, l’opera ipnotica di Salgado, che semina in chiunque la guardi preziosi indizi di consapevolezza ecologica sul presente.


Maggiori informazioni sugli orari di apertura e sui biglietti sono disponibili qui

Leggi le altre recensioni su  ZìrArtmag

Seguici anche su: Facebook e Instagram

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *